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Anno VI, n. 57, maggio 2012
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno VI, n. 57, maggio 2012

Zoom immagine Il rifugio in un mondo di fantasia
e il vincolo tra madre e figlia
superano la morte degli affetti

di Serena Poppi
Da Del Vecchio editore un legame
e una vita che continuano nel ricordo


Il titolo originale del testo francese è Muettes, che significa mute. Mute sono le protagoniste di questo poetico breve romanzo di Yasmine Ghata, che racconta un lutto lacerante di una madre e di una figlia. Il loro mutismo è generato dalla perdita, dall’abbandono inaspettato dell’uomo di famiglia, marito e padre. La madre sfoga il proprio dolore in un vortice di parole scritte, lette e declamate, un alibi assordante per coprire lo strazio di un’assenza; la bimba, a sei anni, invece semplifica e riduce la morte a qualcosa di temporaneo e penetrante: «Morire non impedisce a un padre di tornare a casa. Morire è un atto come un altro. Una scomparsa totale che gli avrebbe impedito di dormire, di parlare e di mangiare, questo non aveva senso nella mia mente. Devo aver immaginato, credo, che morire significasse in fondo vivere ancora, ma in un’altra famiglia, con un’altra donna e altri figli».

 

Inversione di rotta

La bambina che imparò a non parlare (Del Vecchio editore, pp. 88, € 13,00) è la bambina Yasmine, che sceglie di contrapporre il silenzio, come unica possibile espressione di uno shock, di fronte al cambiamento repentino della madre: una donna chiusa nel dolore e nel suo universo poetico, così distante e irraggiungibile, che si riaccorda con la realtà solo nel momento in cui termina il proprio romanzo. Scritto tutto d’un fiato, per mesi, come a sostituire le lacrime che si rifiutano di scendere.

Una iniziale reazione all’essere vedova, troppo forte e individualista per la figlia, che cerca disperatamente di essere coinvolta nel mondo materno, riuscendoci solo la notte, quando le due superstiti dormono l’una abbracciata all’altra, come a sostituire reciprocamente quell’assenza tanto percepita. Anche senza dialogo la bimba subisce l’influenza della madre, che le trasmette il rifiuto della morte del padre-marito proprio quando la piccola ne riscopre alcuni oggetti, odori, ricordi e lo porta istintivamente dentro di sé. Lei già consapevole della mancanza del padre – «Ho smesso di correre a sei anni, le mie gambe non gridavano più la loro gioia come quelle degli altri bambini. Mio padre non era più accovacciato sui talloni, a braccia aperte, per frenare la mia corsa e farmi volare» – e arrabbiata con la madre – che affronta la vita come fosse un prolungamento della propria prosa, delle proprie invenzioni romanzesche – cerca comunque un equilibrio fatto di contemplazione delle piccole cose e di appuntamenti privati: la contemplazione solitaria dell’adorato mare le restituisce il padre di giorno e la madre di notte. Ma l’equilibrio viene rotto proprio quando la madre riesce finalmente ad accettare la morte del marito, a parlarne, a ritrovare un nuovo soffio di vita che infrange il legame indissolubile che si era creato, fatto di intimi complici silenzi. Un cambio di ruoli troppo repentino, che costringe la piccola ad un silenzio pressoché assoluto, come un traffico di emozioni: «Rifiuto e accettazione furono barattati a fine estate».

Sarà la maturità della madre a prendere per le mani la figlia per riportarla alla realtà, ad un nuovo equilibrio fatto di complicità e solidarietà tra chi continua a sopravvivere alla morte del proprio amato.

 

Il rifugio nella scrittura

La scrittura di Ghata è intensa e molto elegante: sceglie con cura ogni termine per non speculare sulle emozioni e sui sentimenti. «Una prosa delicatamente sensuale. Un racconto pieno di saggezza e umanità» scriverà Le Monde des Livres.

Uno stile che si oppone decisamente a quello della madre ai tempi del lutto, fatto di impeto e passione, con frequenti riferimenti alla morte: Yasmine sceglie di dar voce ad uno sguardo narrante delicato e lieve, di chi sta ai margini per contenere la furia della sofferenza materna, troppo dura per una bambina rimasta sola.

In un’intervista con David Frati, Yasmine Ghata racconta che: «La maggior parte degli eventi e delle emozioni li ho vissuti veramente, ma non c’è un’aderenza cronologica vera e propria tra il romanzo e la mia vita. Si tratta piuttosto di ricordi non fermati nel tempo, ricordi che definirei “dinamici”». D.F.: «Dopo aver letto libri su tua nonna (La notte dei calligrafi), tuo padre (Le târ de mon père) e tua madre (La bambina che imparò a non parlare) cosa dobbiamo aspettarci? E cosa succederà quando esaurirai i parenti?». Y.G.: «Ah ah! La famiglia come fonte delle mie storie è finita, non tornerà più. La bambina che imparò a non parlare è stato un libro che mi ha svuotato, e ora ho voglia di riempirmi di cose nuove».

 

Qualche dato

Yasmine Ghata è nata in Francia nel 1975. È figlia di Jean Ghata e della poetessa di origini libanesi Vénus Khoury Ghata. Ha studiato Storia ed Arte presso la “Sorbonne” e l’“École du Louvre”, specializzandosi in Arte islamica. Il suo primo romanzo si intitola La notte dei calligrafi, pubblicato in Italia nel 2005 per Feltrinelli ed è ispirato alla figura di sua nonna, Rikkat Kunt. Nel 2009 arriva Le târ de mon père, inedito in Italia. Nel 2010 La bambina che imparò a non parlare. Muettes.

 

Serena Poppi

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno VI, n. 57, maggio 2012)

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