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A. XVIII, n. 199, aprile 2024
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Dibattiti ed eventi (a cura di Giulia De Concilio)

Il Meridione e la storia,
nomi e numeri decisivi,
personaggi e luoghi
in un’analisi ragionata

di Ulderico Nisticò
Il senso della toponomastica è elemento chiarificatore di percorsi sociali:
nell’approfondimento curato da uno storico, il valore della conoscenza


I nomi molto raramente sono conseguenza delle cose; i toponimi, quasi mai: Grecia e Greci lo dicono tutti e in quasi tutti gli adattamenti linguistici, tranne i Greci, che oggi si chiamano Elleni, però ai tempi di Bisanzio si chiamavano Romani; e ai tempi classici, ognuno si denominava per conto proprio! La parte meridionale della penisola italiana non ha un nome unitario, se già chiamarla Meridione, o Sud è una denominazione relativa, come fosse rispetto ad altro e vista da altri. Nei tempi più remoti, qualche regione, e a tratti, venne chiamata Ausonia, altra Enotria. Sulla Magna Grecia resta il dubbio a cosa esattamente si riferisse. Un’area tra gli attuali golfi di Squillace e di S. Eufemia ebbe nome da un Italo, e la denominazione di Italia dovette presto radicarsi, dal momento che è usata già nel V secolo da Sofocle, Erodoto e Tucidide più volte; ed essi stessi e Diodoro Siculo chiamano Italioti i Greci dell’attuale Calabria, per distinguerli dai Sicelioti, i Greci di Sicilia.

Ma il nome di Italia non servì per molto tempo a darci una stabile definizione, proprio perché si andò estendendo man mano fino al Rubicone; poi, con Augusto, alle Alpi. Intanto gran parte della nostra piccola penisola diveniva bruzia, non per questo chiamandosi Bruttium, ma quasi sempre solo Bruttii, quasi di un popolo senza sedi; e anche ufficialmente: III regio Lucania et Bruttiorum, e tale restò fino ai tempi di Cassiodoro.

 

La Calabria: la nostra amata terra

Si diceva allora Calabria l’attuale Salento. Quando, dopo l’invasione dei Longobardi, restò ai Bizantini solo Otranto, accadde un qualcosa di simile a quelle denominazioni di province che usava Roma e usò Bisanzio quando le cose andavano male, trasferendo altrove il nome di una provincia perduta. Sarà accaduto qualcosa del genere a parte della terra dei Bruzi, che divenne Calabria. Secondo altri, ci sarebbe una premessa nel linguaggio ecclesiastico, quando le diocesi rimaste a Bisanzio, e dal 732 sottoposte a Costantinopoli, vennero distinte, senza riguardo al territorio, in Bruzio e Calabria; ma di Bruzi, ormai Latini da secoli, e Bruzio semplicemente ci si dimenticò. Tuttavia, un qualche nome di Calabria doveva essere presente anche in tempi molto più antichi, se Pausania ricorda il fiume Calauròs nei pressi di Temesa. Una piccola isola di Calauria si trova nell’Egeo, presso Egina. Probabilmente si intendeva, inizialmente, per Calabria il dominio bizantino a sud del Crati e del Savuto, e il resto era Val di Crati; ma quando o di fatto o di nome l’Impero d’Oriente estese i suoi confini (X secolo), il nome di Calabria giunse al Pollino, e vi rimane tuttora.

Accadeva in quei secoli che il Salento dei Messapi e dei Romani divenisse Terra d’Otranto; e si individuassero anche una Terra di Bari e una Capitanata; mentre i Bizantini chiamavano regione imperiale la Lucania: Basilicata. I Longobardi avevano chiamato Ducato di Benevento il loro vasto dominio meridionale, poi diviso nei due Principati di Benevento e Salerno; e i Bizantini dissero perciò in tutto o in parte Langobardia il Meridione, o Langobardia Minor, per distinguerla da quella padana.

 

Tra Calabria e Sicilia

Il dominio del Guiscardo, Roberto d’Altavilla, fu detto Ducato di Puglia; ne faceva parte nominalmente anche quello di suo fratello Ruggero, che era gran conte di Calabria e Sicilia. Quando, nel 1130, Ruggero figlio di Ruggero cinse la corona di re, dovette trovarsi un’intitolazione, e ne escogitò una strana sorta di sommatoria di denominazioni: rex Siciliae et Ducatus Apuliae et Principatus Capuae. Per non dover ogni volta ripeterlo, i contemporanei parlarono di un re e di un Regno di Sicilia, che però significava da Malta agli Abruzzi; Siciliani si dissero gli abitanti, e Scuola siciliana poetica quella che si formava alla corte di Federico II, “giacché il trono era in Sicilia”, come acutamente precisa Dante.

Re di Sicilia furono dunque gli altri Normanni, la dinastia di Svevia e Carlo I d’Angiò. Ma, ribellatasi la Sicilia nel 1282 e conclusa la Guerra del Vespro nel 1304, si stabilì che Carlo II avrebbe mantenuto il titolo di Sicilia senza l’effettivo dominio della Sicilia, e Federico d’Aragona avrebbe assunto lo strano titolo di re di Trinacria possedendo l’isola. Siccome questa Trinacria pareva già allora un nome posticcio e forzato, l’uno e l’altro re si intitolarono di Sicilia, ma, per distinguerli nell’uso quotidiano, l’uno venne detto di Sicilia ultra Pharum e l’altro citra Pharum.

 

Le Due Sicilie

Le Sicilie erano dunque due, spesso in guerra tra di loro; e quella continentale cominciò a dirsi informalmente Napoli dal nome della sempre più ingombrante capitale. Anche ciò fu e resta fonte di equivoco: e si distinse qualche volta tra Napoletani, abitanti della città, e Napolitani, del Regno.

Nel 1442 il re d’Aragona e di Sicilia isola, Alfonso, divenne anche sovrano napoletano, e dunque della Sicilia isola e della Sicilia modo di dire, e, per primo, si fece chiamare a volte anche rex Utriusque Siciliae, delle Due Sicilie, ma rimanendo distinti i due Stati, che, nel 1458, separò nelle persone del fratello Giovanni a Barcellona e Palermo, e del figlio Ferdinando (Ferrante I) a Napoli. Caduta la dinastia aragonese e subentrato Ferdinando d’Aragona, questi, pur essendo re di Sicilia, pose fine all’equivoco, e diede ufficialità al nome di Regno di Napoli; e così i suoi successori Carlo V, Filippo II, Filippo III, Filippo IV e Carlo II di Asburgo Spagna, e Carlo VI di Asburgo; nonché Carlo di Borbone nel 1734. Questi venne riconosciuto re di Napoli e di Sicilia, stati ancora separati e sotto di lui e nei primi tre decenni del lungo regno del figlio Ferdinando. Ma, regnando ancora Carlo su Napoli, nel frontone della reggia di Caserta scrisse, sia pure senza valore giuridico, rex Utriusque Siciliae come l’antico Alfonso.

I giacobini francesi che nel 1798 occuparono il Regno diedero asfittica vita ad una Repubblica Partenopea, con un governo di illuministi locali privo di ogni potere, e che dedicò i pochi mesi della sua flebile esistenza a coltivare ogni genere di utopia, tra cui l’invenzione di nomi come Dipartimento del Crati, o persino Bruzio. Il cardinale Ruffo, ricacciati i francesi, pose fine anche a queste improbabili rivoluzioni topografiche.

 

Gioacchino Murat

Anche l’altro invasore Murat, che, occupante solo del Meridione, e nemmeno sempre e del tutto, rivendicava l’isola, si fece chiamare a volte re delle Due Sicilie. Dobbiamo attendere il ritorno di Ferdinando a Napoli perché, per volontà del Congresso di Vienna e per poter revocare la costituzione siciliana del 1812, egli unificasse i due stati (1816), e desse corpo a questo nome di Due Sicilie, con un Regno unificato, che durò fino al 1860. Da allora il Regno venne ridotto a “province meridionali”, e, nel sentire comune, a Meridione, Mezzogiorno o Sud, con relativa questione meridionale. Una gran bella confusione, tutti questi Imperi, e Ducati e Regni.

Sotto Filippo II, il Regno cominciò a distinguersi in province: Terra d’Otranto (attuali province di Lecce, Brindisi, Taranto); Terra di Bari (Bari); Capitanata (Foggia); contea del Molise (oggi regione); Abruzzo Ulteriore (Aquila, Teramo); Abruzzo Citeriore (Chieti, Pescara); Terra di lavoro (Latina, Caserta, Napoli); Principato Citeriore (Salerno); Principato Ulteriore (Avellino e Benevento, ma senza questa città, dominio pontificio fino al 1860); Basilicata (la regione); Calabria Citeriore (Cosenza a nord del Neto); Calabria Ulteriore (Cosenza a sud del Neto, Catanzaro, Crotone, Vibo V., Reggio C.). Alcuni di questi toponimi ufficiali entrarono nell’uso comune, e si disse a lungo gli Abruzzi, le Calabrie. Denominazioni antiche di largo uso restarono a Cilento, Capitanata o Tavoliere; ma Terra Giordana per l’attuale provincia di Cosenza sullo Ionio non sopravvisse al Medioevo.

 

Mutamenti di nomi per ragioni ideologiche

Con il neoclassicismo settecentesco, qualcuno richiamò in servizio obsoleti nomi preromani e romani. Alcuni ebbero fortuna, e si dice ancora Salento.

Dopo l’unificazione italiana, accadde, inesausta fonte di equivoci, che a moltissimi luoghi della penisola venisse ordinato di precisare in qualche modo il loro, perché comune, come gli innumerevoli Santa Maria o San Pietro; e intervennero o velleità di prestigio, o ingegnose elucubrazioni; e il fenomeno fu molto frequente nel Ventennio fascista. Così, per restare alla Calabria, i più si giovarono della geografia: “Calabra o Calabro” Aiello, Bagnara, Belmonte, Corigliano, Monteleone, Monterosso, Pizzo, Soriano; Cerchiara preferì “di Calabria”; Fiumefreddo si disse Bruzio. Ma Monteleone Calabro nel 1928 tornò il romano Vibo Valentia.

Cassano, Gioiosa, Isca, Montebello, Roccella, Rossano, S. Andrea, S. Caterina, S. Ilario, S. Vito fecero ricorso alla posizione sullo Ionio (o sul Ionio, secondo le diverse fonetiche).

Falconara, Macchia, S. Caterina, S. Giorgio, Spezzano si dissero “Albanese”, e S. Benedetto si aggiunse Ullano. Rota preferì il più filologico Greca. Ma Porcile, a buon diritto, rifiutò il fetido nome, e si ribattezzò Eianina. Casino si chiamò Castelsilano.

Con altri accenni alla geografia, ecco Belvedere Marittimo, Caraffa di Catanzaro e Caraffa del Bianco, Francavilla Angitola, Isola Capo Rizzuto, Roseto Capo Spulico, S. Agata del Bianco e S. Agata d’Esaro, S. Cristina d’Aspromonte, S. Eufemia d’Aspromonte, S. Ferdinando di Rosarno (oggi nuovamente solo S. Ferdinando), S. Giovanni di Gerace, S. Lorenzo del Vallo, S. Mauro Marchesato, S. Pietro a Maida, S. Pietro d’Amantea, S. Pietro Magisano, S. Stefano d’Aspromonte, Serra d’Aiello, Terranova di Sibari.

 

Nomi di santi

Fecero appello ai santi Serra S. Bruno, Sorbo S. Basile, S. Pietro Apostolo, S. Pier Fedele, S. Pietro di Caridà. Al contrario, S. Elia preferì il laico, e scontato, Vallefiorita.

Dalle fusioni tra centri vicini presero nome, in tempi diversi, Belvedere Spinello, Simeri Crichi, Soveria Mannelli; Ragonà e Cassari fecero Nardodipace; e quando Radicena e Iatrinoli si unirono, sorse Taurianova; infine, da Nicastro, Sambiase e S. Eufemia Lamezia, fecero Lamezia Terme. Molti ricorsero alle storie, con minore o maggiore ragione di attribuirsi antichità e glorie: Bruzzano (allora scrivevano Brussano) si ricordò del promontorio Zeffirio dei Locresi; Gioia, di Taureana, e si disse Tauro; Guardia che si chiamava da sempre dei Lombardi, preferì, con maggiore esattezza Piemontese; Laureana si appellò di Borello da una città medioevale; Roggiano si ricordò del suo Gian Vincenzo Gravina; S. Gregorio si disse erede di Ipponion, e d’Ippona; S. Mango ebbe memoria dei feudatari d’Aquino; Torre, del conte Ruggero.

Alcune identificazioni furono fantasiose, o decisamente arbitrarie. S. Giorgio volle essere la sede del mitico re Morgete, divenuto però Morgeto; Castelvetere, con furia sospetta, rinunciò all’antico nome glorioso a Lepanto, e si arrogò Caulonia che invece è Monasterace Marina; Montalto pretese l’enotria Uffugum; Oppido, Mamertum; S. Marco, Argentanum; Policastro, Petelia. Un’altra S. Nicola si ricordò di un’ellenica Crissa.

Fu per le stesse ragioni di classicismo che Cotrone tornò Crotone; Monteleone, sappiamo, venne ribattezzata Vibo Valentia con tanto di t; e Gerace Inferiore, Locri: così Gerace Superiore tornò semplicemente Gerace. Chi non lo sa, crede, falsamente, che quelle città si chiamassero così ininterrottamente dall’antichità più remota.

Per misteriose vie, Pietramala si attribuì la cauloniese Clete, facendone però il maschile Cleto. Solo ai dotti di Calabria può “parere brutto” un nome come Pietramala, che altrove si terrebbero caro, non fosse altro che per spaventare i malintenzionati!

Castelfranco preferì Castrolibero; un Feroleto si disse Antico, un altro della Chiesa; Roccaforte, si aggiunse del Greco; S. Maria, del Cedro; un S. Nicola aggiunse Arcella; quello di gente albanese, dell’Alto; Torano, Castello. L’antica Terranova aspro-montana, già sede di duca e ora piccolo borgo, si diede il lungo nome di Terranova Sappo Minulio. I cittadini di Chiaravalle, sempre burocratici e non particolarmente dotati di fantasia, si contentarono del freddo epiteto di Centrale! Ci si mise anche la politica, e Rocca Ferdinandea si ridusse a Rocca di Neto.

Resta da dire che non era una novità assoluta, che in Calabria mutassero i toponimi. Molti centri già avevano preso nome dai feudatari fondatori: Alessandria del Carretto, Borgia, Cicala, Doria, Grimaldi, Savelli, Sersale, Staiti, le due Caraffa... Castelmonardo, distrutta dal sisma del 1783, risorse come Filadelfia; paesi nuovi furono Delianuova, Cittanova, Polistena. In tempi più antichi, Castriota divenne Cicala; Prunari, Fabrizia.

 

Quanti nomi e tante difficoltà

A non saperle, queste cose, quanta confusione! Oggi, nel mondo borghese e razionalizzato, i luoghi si chiamano provincia di... E tutti pensano che conti solo la città capoluogo. Noioso e fuorviante, però, chiaro.

Ancora peggio, i nomi dei sovrani, e i loro numeri. I Cesari romani, almeno, con i loro tre nomi di base e i diversi appellativi, di solito si distinguono benissimo. Ma già, con i basilèis bizantini che regnarono anche sopra le nostre terre, abbiamo tre Giustiniani, dieci Costantini, sei Micheli, quattro Leoni... Per buona sorte, di solito distinti anche da un soprannome più o meno onorevole. Occorre molta buona memoria, invece, e un pizzico di pignoleria, per districarsi tra i molti omonimi sovrani di stirpe e cultura occidentali. Ruggero d’Altavilla il gran conte (morto nel 1101) venne seguito dal figlio re Ruggero, che è detto giustamente II, e questo impose di chiamare retroattivamente I il padre. Roberto il Guiscardo non ebbe altri Roberti duchi di Puglia dopo di lui, bensì un figlio Ruggero detto Borsa, ma senza numero, e il figlio di questi Guglielmo, che è il secondo normanno, ma Guglielmo Braccio di ferro era solo più o meno autoproclamatosi conte di Melfi. A re Ruggero II successe Guglielmo I, a questi Guglielmo II. Quando la zia di questi, Costanza, unica erede di Ruggero II, sposò Enrico VI di Svevia, i nobili elessero in sua vece Tancredi conte di Lecce, unico di questo nome; che associò a sé il figlio Ruggero, che dunque sarebbe Ruggero III. Regnò per breve tempo anche il figlio di questi, Guglielmo, anch’egli III.

Regnò poi Enrico, che, volendolo considerare re e non solo principe consorte di Costanza, era VI come imperatore, ma come sovrano di Sicilia sarebbe I. Suo figlio Federico è detto II come imperatore per distinguerlo dal nonno Federico I Barbarossa, ma dovrebbe essere I in Sicilia. Se il figlio Enrico non si fosse ribellato, sarebbe stato Enrico VII come imperatore, ed Enrico II in Sicilia. Federico II, morendo nel 1250, lasciò erede Corrado, che dovrebbe essere I; seguito dal figlio che chiamiamo Corradino, ma era, se avesse regnato, Corrado II. Intanto regnava Manfredi, unico di questo nome.

Carlo d’Angiò è il I; suo figlio regnò come Carlo II detto di Sicilia, in realtà, come sappiamo, del solo continente. Gli successe nel 1305 Roberto, unico come re di Sicilia, di fatto Napoli, giacché il Guiscardo fu solo duca; ma che, a scopo pratico, è detto Roberto d’Angiò. In Sicilia regnò Federico figlio di Pietro III d’Aragona e I di Sicilia, e venne detto impropriamente III per distinguerlo dal bisnonno Federico II, che, ripetiamo, sarebbe I, e perciò il suo erede doveva essere II. A Roberto successe Giovanna I. Questa ebbe più mariti, tutti proclamati re: Andrea d’Ungheria, Luigi di Taranto, Giacomo della Marca: ma le loro vicende furono brevi e complesse, sicché le proclamazioni di sovranità si devono considerare poco più che nominali; tanto meno ebbero una numerazione; e non è il caso che gliel’assegniamo ora, accrescendo la nebbia onomastica della nostra storia. Dopo una lunga crisi, salì in modo effettivo al trono l’Angiò Carlo, che è chiamato di solito Carlo di Durazzo, ma dovrebbe essere detto Carlo III, così come viene chiamato da alcuni storici meridionali dei secoli XVI e XVII. Il figlio Ladislao fu il solo a portare tale nome balcanico; mentre a questi, morto nel 1414, seguì la sorella Giovanna II.

Questa, ondivaga, adottò uno dopo l’altro principi francesi di nome Luigi, e chiamati I, II e III. Erano d’Angiò, ma della Terza Casa. Si presentò un’ulteriore confusione: la Prima Casa d’Angiò è quella dei Plantageneti poi re d’Inghilterra; la Seconda, degli Angioini scesi in Italia; e la Terza è un ramo dei Valois.

 

E a Napoli…

Ma prese il potere e il trono nel 1442 Alfonso, V re d’Aragona, I di Napoli. Lasciò, come sappiamo, Napoli a Ferdinando, o Ferrante I; gli successe Alfonso II; a questi, Ferrante II; a questi, Federico, che dovremmo dire III per distinguerlo dallo Svevo; ma chiamato usualmente Federico d’Aragona; e spodestato nel 1501.

Ferdinando VII re d’Aragona fu, a Napoli, il III di tal nome. Il nipote Carlo d’Asburgo, V come imperatore, qui da noi dovrebbe essere IV. Gli storici calabresi del tempo considerano però regina la madre di Carlo V, e le danno perciò nome di Giovanna III. È qui il caso di precisare che le regine vengono numerate se sovrane, non mogli di re. Ma anche l’uso ambiguo della parola regina crea qualche confusione.

Il figlio di Carlo V e IV, Filippo II di Spagna, sarebbe Filippo I di Napoli; e Filippo III, qui II; e Filippo IV, il III; e il figlio di questi, Carlo II, morto senza eredi diretti nel 1700, sarebbe qui Carlo V. L’imperatore Carlo VI d’Asburgo fu re di Napoli, e, una buona volta, VI anche qui.

Carlo di Borbone, re di Napoli e re di Sicilia separati dal 1734, non prese numero; ma sarebbe stato Carlo VII a Napoli, e, discutibilmente e contando gli Angiò, Carlo V in Sicilia. Invece tutti lo conoscono, con evidente anacronismo, come Carlo III, la numerazione che prese nel 1759, ma in quanto re di Spagna. A proposito, re di Spagna è un anacronismo sotto l’aspetto giuridico: nominalmente, i sovrani iberici restavano titolari dei molti Regni di Castiglia, Aragona, Valencia... Il primo a regnare sopra una Spagna unificata fu Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone, il quale prese sì tale titolo, ma in Spagna non fu un personaggio popolare.

Carlo, divenendo di fatto III a Madrid, lasciò i due troni italiani al figlio Ferdinando, che, per quanto precede, fu IV a Napoli e III di Sicilia. I due napoleonidi che ne presero provvisoriamente il posto nel continente tra il 1806 e il 1815, sarebbero Giuseppe I e Gioacchino I, ma, non seguiti da omonimi, sono noti con il solo nome e senza numero.

Ferdinando IV e III, data vita alle Due Sicilie, si intitolò scrupolosamente Ferdinando I. Gli successe Francesco I; a questi, Ferdinando II; a questi Francesco II. Se il Regno fosse sopravvissuto alla duplice invasione del 1860, a Francesco II, senza eredi, sarebbe successo il fratello Alfonso, che sarebbe stato I, fino alla morte nel lontano 1934. Suo successore sarebbe stato, fino al 1960, Ferdinando III; morto il quale, sarebbe asceso al trono Ranieri, evidentemente I. E a lui, Ferdinando IV, il quale, morto di recente, ha suo erede vivente Carlo I.

Invece regnò sull’Italia unificata Vittorio Emanuele II re di Sardegna, che restò II anche come re d’Italia senza che ci fosse stato un I. A lui successe Umberto I; a lui Vittorio Emanuele III; quindi Umberto II per un mese del 1946. Se no, e parte le beghe interne dei Savoia, oggi sarebbe re Vittorio Emanuele IV, e gli succederebbe Emanuele Filiberto I, attualmente ballerino televisivo. Oppure, Amedeo duca d’Aosta, che sarebbe Amedeo I d’Italia; però, secondo l’uso dei Savoia di seguire la numerazione dinastica, niente di meno che Amedeo X. I Savoia furono re d’Italia, denominazione adottata dallo stato unificato nel 1861, e, ampliato nel 1866, 1870, 1918. L’Italia era l’attuale Calabria Centrale; ma quando Carlo Magno cedette al figlio Pipino i suoi domini longobardi, lo proclamò re d’Italia. I suoi successori carolingi – Bernardo, Lotario I, Ludovico II, Carlo il Calvo, Carlomanno, Carlo il Grosso; e Berengario I, Guido di Spoleto, Lamberto di Spoleto, Arnolfo di Carinzia, Ludovico III il Cieco, Rodolfo II di Borgogna, Ugo di Arles, Lotario II di Arles, Berengario II; e, dopo il 962, i re di Germania e imperatori, portarono il titolo di re di un Regno d’Italia che confinava con lo stato della Chiesa, e che dunque teneva ben lontani dai suoi confini i mitici domini del re Italo! Gli Svevi e Carlo V, che vollero rivendicare per sé la corona d’Italia, e lo stesso Napoleone, prima presidente di una Repubblica Italiana, poi re d’Italia, ebbero ben certo che il loro dominio stava a Nord di quella che, geograficamente e culturalmente, si chiamava l’Italia. Perché Italo tornasse in Italia, ci vollero secoli.

 

I nobili Savoia e il Regno d’Italia

Nel 1943, il Regno d’Italia dei Savoia ebbe quel poco di autorità lasciatogli dagli occupanti angloamericani, ma un’altra volta a Sud, e man mano che l’occupazione saliva verso le Alpi. A Nord sorse uno stato fascista, che prese il nome, politico e non geografico, di Repubblica sociale italiana. Infine, dove ci troviamo noi, in questo 2011? In una Repubblica italiana, denominazione anche’essa politica, in cui l’istituzione, Repubblica, pare prevalere sul luogo, Italia.

A che serve questo articolo? Beh, a me come divertissement erudito (ognuno ha i suoi vizi); e a qualche curioso, ma non proprio cultore di storia, a districarsi fra troppi nomi e troppi titoli, quasi una metafora di questo Meridione mai veramente unito.

Sarebbe luogo di qualche riflessione. I numeri dei sovrani meridionali, si sarà notato, sono tutti bassi. La Francia ha contato nel frattempo venti Luigi, dieci Carli, sei Enrichi; la Spagna, a parte gli antichi Regni, tredici Alfonsi e sette Ferdinandi; le monarchie scandinave, sedici Carli e quattordici Erik in Svezia, nove Cristiani e nove Federichi in Danimarca... Una serie che testimonia quella forza che non abbiamo mai avuto, la continuità dinastica. Ci furono qui da noi sempre due o tre re in contemporanea, con grande piacere dei popoli, che, in mezzo a tre o due sovrani, si destreggiavano a non obbedire a nessuno. Vedete che anche la più scolastica e piatta erudizione alle volte può servire ad un ragionamento storiografico serio? Ma de hoc, satis, o ad un’altra occasione.

 

Ulderico Nisticò

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 52, dicembre 2011)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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