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Anno V, n. 49, settembre 2011
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Comunicazione e Sociologia (a cura di Alba Terranova) . Anno V, n. 49, settembre 2011

Zoom immagine L’esperienza del precariato
tra ingiustizie e prepotenze:
le responsabilità politiche
e l’incertezza per il futuro

di Angela Galloro
La dura realtà del lavoro giovanile
presentata da Rubbettino editore


Da qualche tempo la precarietà affligge costantemente ogni aspetto dell’esistenza. Forse per l’avvento di un postmoderno troppo veloce, tutto diventa instabile: le istituzioni, la giustizia, l’ambiente, il lavoro. Nell’ultimo caso, questa instabilità cronica si trasforma nel precariato, il mostro di cui parla il saggio edito da Rubbettino nella collana Problemi aperti. Non esiste nome più adatto, infatti, per scrivere di un fenomeno che mina le condizioni dei lavoratori, fino a ledere la dignità umana dal primo ingresso dell’individuo nel mercato del lavoro.

 

Anarchia del lavoro

Chi scrive, Marianna Madìa, è una giovane parlamentare del Partito democratico, membro della Commissione lavoro, ma che ricopre anche l’incarico di dottore di ricerca in Economia del lavoro e che conosce, quindi, il mondo del precariato in senso teorico-economico ma forse, anche personalmente. Il suo scritto Precari (Rubbettino, pp. 104, € 10,00) non è identificabile in un genere preciso, come sostiene nella Prefazione il Segretario generale della Cgil Susanna Camusso. Non è solo una cronaca, un’opinione, un romanzo, un diario: ma forse non è questo l’aspetto principale da sottolineare. Il libro che è un disincantato racconto di episodi reali e quotidiani, di lotte, licenziamenti, manovre economiche errate, ma considerate necessarie, se non ha il potere di trovare una soluzione al problema (perché a quanto pare i tempi non sono maturi), certamente ha il merito di accrescere la consapevolezza, e di informare sulla drammaticità di episodi completamente ignorati o stravolti dall’informazione ufficiale.

Emergono amare constatazioni: il precariato agisce per sottrazione; rappresenta un non-sviluppo, un non-contratto, un non-lavoro, una non-previdenza. È un vero e proprio limbo, come l’autrice lo definisce, che non permette via d’uscita perché nella maggior parte dei casi non garantisce nessuno sbocco futuro e per di più si impone come una scelta obbligata da parte del giovane che si affaccia al mondo del lavoro per la prima volta, o del non più giovane che ha perso un impiego precedente. A ciò segue un circolo vizioso fatto di stages non retribuiti e pochissime possibilità di ottenere un contratto a tempo indeterminato, classico e con relativo stipendio. Tralasciando le conseguenze collaterali che tutto questo comporta (l’indice di bassa natalità, l’impossibilità di metter su famiglia, di ottenere mutui e finanziamenti, un senso generale di instabilità), il pamphlet della Madìa analizza cause, effetti e pareri di ogni parte politica.

 

Il male necessario

Per i nostri parlamentari l’idea del lavoro precario non appare così malsana, come emerge da queste pagine. Il “contratto a progetto” presuppone la cosiddetta flessibilità, che di per sé non suona come attributo negativo. I ricercatori, collaboratori, dipendenti con contratto a termine sono tanti, ma il loro numero viene sottostimato: i vertici della politica e le autorità competenti tendono a sottovalutare il fenomeno considerando un periodo di precarietà lavorativa nella vita di un individuo come un male necessario, in attesa di un impiego fisso. Non si accorgono che questo fantomatico posto non viene assolutamente garantito. Il decreto legge 112 divenuto legge nel 2010, infatti, non obbliga il datore di lavoro che viola le clausole del contratto a tempo determinato a risarcire il lavoratore con un contratto a tempo indeterminato, ma gli dà la possibilità di risarcirlo con qualche mensilità di stipendio. Molte sono le storie di ricorsi riportate nel libro, in cui si vede sbarrata a lavoratori ed ex lavoratori la strada al contratto a tempo indeterminato. Il lavoro è considerato, pericolosamente e ancora una volta, merce. E i lavoratori a termine, dei novelli “capitani di ventura”, che si offrono all’instabilità per scelta di vita, per non restare immobili. Un’interpretazione parecchio fantasiosa, che testimonia l’abisso tra la società civile e la politica, o una diffusa, endemica cecità dei ministri per i quali i primi tagli da apportare per risanare il bilancio, sono destinati alla scuola, ai posti di lavoro e alla ricerca. Marianna Madìa spende un’opinione anche riguardo alle assunzioni dirette in base alle “conoscenze”, al “passaparola” e non sulla base di concorsi statali, che come sappiamo, nel corso degli anni provocano clientelismi di ogni tipo e pone al ministro Brunetta un articolato quesito: queste assunzioni precarie servono allo stato o no? In caso affermativo sarebbe arrivato il momento di regolarizzarle, al contrario, se sono posti di lavoro inutili, bisognerebbe eliminarli in quanto momentanei e sprovvisti di ogni tutela.

 

A mali estremi

Molte sono le storie proposte in Precari, tutte storie giovani ed estreme. Il capitolo dedicato a queste si apre con una citazione di Amartya Sen, noto economista indiano, sulla speranza di risolvere le ingiustizie. Solo negli ultimi anni si sono susseguiti gli avvenimenti dei lavoratori di Nortel, di Eutelia e dei precari dell’università, che sono saliti sui tetti come atto simbolico e testimonianza di instabilità, i primi perché minacciati da continui licenziamenti, gli altri perché si vedono impedita la possibilità di lavorare in un campo, quello della ricerca, che solo in Italia viene bistrattato e sottovalutato. L’autrice chiama i servizi giornalistici che raccontano delle proteste come le notizie del “solito settembre”, dal momento che potrebbero essere uguali ogni anno. Questo perché il malessere cresce continuamente e a nulla servono le misure atte a “rattoppare” il taglio come il bonus per i precari. Il libro, oltre a constatare il generale atteggiamento di incertezza per il futuro, rappresenta un campanello d’allarme: la crisi e la precarietà non possono più essere nascoste dietro la speranza di un “dopo” pieno di promesse, ma vanno considerate, anche a livello economico. Il lavoratore e il suo prodotto non sono più oggetti, ma termometri del benessere di una società. Non più soltanto il Pil definisce le condizioni di un paese, ma lo stato di occupazione e di stabilità della persona e, con essa, della nazione. L’Italia sta diventando un paese in cui si può passare da uno status economico medio alla completa povertà, senza situazioni intermedie, e questo potrebbe comportare dei disordini sociali che storicamente conosciamo, come la lotta di classe, soprattutto se viene negato all’individuo un posto fisso di lavoro, generalmente anche dopo anni di dura istruzione e di collaborazioni gratuite (la cosiddetta “gavetta”). Tra le disparità sociali da temere di più c’è la differenza di genere. Come è facile prevedere, difficilmente le donne in età fertile possono trovare un posto di lavoro o sperare nella regolarizzazione di ipotetici contratti a termine; avviene sempre più spesso il fenomeno delle dimissioni in bianco, con cui il datore di lavoro può licenziare “pacificamente” le lavoratrici (spesso appartenenti a categorie deboli) in caso di maternità. Si tratta di soluzioni barbare, che non dovrebbero essere contemplate in una società sana, dove l’individuo può esprimersi liberamente attraverso il proprio lavoro, qualunque strada decida di intraprendere (e non necessariamente quella dettata dalle esigenze di mercato). Questo è ciò che Marianna Madìa racconta, in questo approfondito viaggio tra tetti di aziende e decreti: dal momento che ognuno è in gran parte ciò che fa, la precarietà sul lavoro si traduce troppo spesso in precarietà esistenziale e collettiva e risulta, quindi, un problema urgente da risolvere in tempi brevi.

 

Angela Galloro

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 49, settembre 2011)

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