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Anno I, n° 4 - Dicembre 2007
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Politica ed Economia (a cura di Maria Franzè) . Anno I, n° 4 - Dicembre 2007

Zoom immagine La Prima repubblica “pesata”… in fotogrammi
di Rita Felerico
L’evolversi storico-sociale dell’Italia nella seconda metà del Novecento
si rispecchia nei mass media: un interessante testo Liguori dice come


Unità raggiunta… unità ufficiale o semplicemente ufficiosa? È bastato il 1860 a renderci tutti italiani o si è trattato solo di un collante che ha fatto di noi un popolo di addizioni senza amalgama? Ancora in erba come nazione, l’Italia ha visto la sua unità minata  prima dalla politica di un trasformismo che mirava più ad accordare le differenze che non a renderle conformi, poi da due guerre mondiali tra le quali la presenza del Fascismo voleva imporre una facciata nazionale senza un contenuto adeguatamente “mescolato”. Sarà dall’avvento della Prima repubblica, nel 1948, che i tasselli cominceranno a delineare meglio i propri contorni per poi sfumarsi e fondersi in un unico dipinto ancora oggi talvolta un po’ grottesco: l’identità italiana.

Specchio di questo movimento schizofrenico di valori, storie, reazioni sociali e contrasti, che si estendono nella collettività come una macchia d’olio, sono i mass media. In cambio essi si nutrono dei racconti che la stessa Italia dona loro.

È proprio a questo “baratto” che è dedicato il libro Le linee d’ombra dell’identità repubblicana. Comunicazione, media e società in Italia nel secondo Novecento (Liguori, pp. XII-309, € 18,00), una raccolta di saggi curata da Pietro Cavallo, professore di Storia contemporanea, e da Gino Frezza, docente di Sociologia dei processi culturali (entrambi insegnano all’Università di Salerno).

I mezzi di comunicazione qui raccontano e si raccontano attraverso i saggi dei massimi esperti nel settore. Saggi che si susseguono ognuno come un racconto a sé, ma con un filo logico che crea l’armonia di un testo che alla storia non toglie le emozioni del vissuto.

 

Cinema nazionale e identità italiana

La prima parte è dedicata al concetto di identità nazionale, rappresentata dallo storico e sociologo Pierre Sorlin come il patrimonio valoriale di una nazione e la percezione di esso da parte degli elementi appartenenti alla nazione stessa. Il tempo che passa e che cambia ciò che trova nel suo passaggio non risparmia neanche questo bagaglio di modelli sociali, e particolarmente adatto a fotografarne le sequenze è il cinema. Sia che un valore stia facendo capolino in una società, sia che stia dirompendo e regnando sovrano nella sfera pubblica, il cinema ne circoscrive ogni passo con l’attenzione minuziosa di un discreto ma infallibile osservatore.

Tuttavia non basta un semplice racconto per definire “nazionale” la produzione cinematografica di un Paese, che si basa invece su elementi più complessi e sfaccettati che superano il concetto di lingua parlata nello svolgimento del copione e di paesaggi registrati nelle inquadrature. Il cinema nazionale, sorto come necessità di reazione ad una concorrenza spietata con Hollywood monopolizzatrice di popolarità, è un concetto “sentito” da un popolo, il cui perimetro è attraversato da temi cari alla storia nazionale e alla sua attualità, da generi che rispecchiano lo stato d’animo collettivo in un dato periodo storico, e da attori che meglio incarnano queste necessità. E in ogni singolo fotogramma della pellicola lo sceneggiatore Ugo Pirro sostiene di poter trovare infinite prove e segnali (lampanti o metaforici che siano) di una struttura sociale che si dispiega nello spazio e nel tempo.

 

Fotografie di sequenze storico-sociali

E così la seconda parte è dedicata proprio all’analisi storico-sociale delle pellicole registrate dal Secondo dopoguerra in poi, con una particolare attenzione alla corrente cinematografica che più ha raccontato la Resistenza e il dramma di un’Italia dilaniata dalla povertà lasciata come unica eredità dal secondo conflitto mondiale: il Neorealismo. Lo stesso Cavallo delinea le caratteristiche salienti che accomunano cinque film dati alla luce nello stesso anno in cui nasceva anche la Prima Repubblica italiana, ovvero il 1948. Film in bianco e nero, esattamente come il contrasto presente in un paese in cui il sospetto e la paura per ciò che è appena stato si sposa con la speranza nel futuro, speranza incarnata soprattutto dai bambini, intatti e incontaminati dallo sporco di una guerra che ha lasciato dietro di sé solo orrore e disperazione.

Ed è proprio la figura del bambino ad essere protagonista di molti film neorealisti. Tramite tra ieri e domani, i fanciulli rappresentavano un oggi costellato dalle caratteristiche più diverse, così come Peppe D’Antonio (ricercatore in Scienze della comunicazione presso l’Università di Salerno) sottolinea nel saggio dedicato a tre pellicole che hanno fatto risaltare dell’infanzia un possibile ponte verso un mondo migliore e meno ostile (come in Ladri di biciclette), un annullamento disperato per non guardare tanto orrore (Edmund di Germania anno zero si copre gli occhi con le mani più di una volta), oppure una denuncia verso il cinema neorealista da parte del neorealismo stesso, come avviene appunto in Bellissima di Visconti, in cui si punta il dito contro l’usanza cinematografica di “sfruttare” e svilire lo sguardo dell’infante.

 

Il cinema che osserva le donne

Non tralasciando proprio nulla, l’arte cinematografica riesce a fermare ogni singolo momento delle evoluzioni, come è avvenuto in modo relativamente veloce e contrastato fra gli anni ’50 e ’60 con l’emancipazione femminile: ciò che era tabù per la protagonista di Europa ’51 (film di Rossellini del 1952) – e cioè la possibilità di viversi come essere umano attivo nella società senza alcun freno gestito dal proprio genere di nascita – diventerà una scelta possibile e pur sempre ardua per Francesca di Nata di marzo, film del 1957 in cui la separazione dal marito viene vista come possibile ma fallimentare per la donna. Dovremo attendere il 1962 con L’Eclisse e il 1963 con La Parmigiana per applaudire due protagoniste di pellicole che non si concludono col matrimonio come unica via d’uscita e di riuscita di una donna nella società.

 

Gli italiani: pro o contro?

Ma il cinema non è solo dinamica evolutiva di momenti, bensì anche fermo immagine di caratteristiche sociali, come quelle su cui la commedia italiana ha fatto perno per ridere, con l’unica costante di evidenziare i difetti di stereotipi nazionali che ci hanno resi famosi più per le nostre debolezze che per le nostre qualità. Così Arturo Lando, giornalista e critico cinematografico, coglie la particolarità del regista livornese Paolo Virzì nel saggio a lui dedicato: sono le risorse degli italiani che fanno di noi un popolo che, nonostante tutto, si è sempre rialzato dopo mille cadute, e Virzì lo sa bene e sottolinea proprio questa capacità di inventarsi e di reinventarsi tutta italica!

Un’Italia, la nostra, che ha partorito anche persone di immenso coraggio, e che si sono distinte in un clima di omertà e di paura per la loro capacità di andare incontro ad un destino ostile ma valoroso. E anche in questo caso il cinema ha reso loro omaggio più di tanto silenzio sociale, distruggendo con le immagini il muro dell’oblio: nell’ultimo saggio della seconda parte, il sociologo Marcello Ravveduto espone con esemplare chiarezza e indovinate intuizioni il modo in cui pellicole come Placido Rizzotto, Un uomo da bruciare, I cento passi e Tonino Esposito Ferraioli (quest’ultimo è l’unico cortometraggio fra i quattro film citati) hanno impresso eternamente nella memoria della storia i nomi di giovani eroi uccisi dalla malavita organizzata, ossia rispettivamente quelli di Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Peppino Impastato e Tonino Esposito Ferraioli.

 

Cinema, ma non solo cinema…

Pur puntando l’attenzione sul mezzo di massa per eccellenza (se non altro perché il cinema è l’unico mass medium che può essere fruito solo in compagnia), il volume curato da Cavallo e Frezza non dimentica di dedicare anche spazio all’Italia che si trasforma dietro le ombre dei fumetti (che ne calcano i chiaroscuri più tramite metafore che non attraverso esplicite descrizioni), e ovviamente alla televisione, i cui programmi costituiscono una sorta di imprinting identitario secondo una ricerca sociologica riportata nel volume stesso. Una televisione che di sicuro ha fatto tremare il cinema, e la cui lotta con esso è stata metaforizzata, secondo Fabrizio Denunzio (ricercatore in Scienze della comunicazione), da Vittorio Cottafavi in un film del 1964, I cento cavalieri.

I media si susseguono, dunque, ma si incontrano, si scontrano, “giocano” e spesso si sfidano, e tutto ciò crea un equilibrio di sistema che opera un continuo scambio con la storia e con la società. Uno scambio in cui non si può conoscere il punto d’origine né quello d’arrivo, vista la velocità di un movimento in cui esiste solo rafforzamento reciproco e non influenzabilità incontrastata.

 

Alberto Sordi e la sintesi mediatica italiana

Se si potessero riassumere tutti i mass media e tutta la storia della Prima Repubblica in un solo personaggio, costui sarebbe Alberto Sordi. Ed è proprio a lui che è dedicata la terza ed ultima parte del volume. Essa riporta i motivi che hanno condotto le Autorità accademiche della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Salerno a motivare positivamente una laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione per lo straordinario attore italiano, il quale ha mostrato di «aver saputo attraversare con segno estremamente riconoscibile […] l’intero ambito dei mezzi e delle forme di comunicazione: dal varietà e dallo spettacolo teatrale alla radio, dal cinema di consumo al film di sperimentazione e di ricerca, dal programma televisivo d’intrattenimento all’informazione audiovisiva su fasi e momenti del cambiamento del costume e della storia italiana nel corso del Novecento».

Non possiamo infatti dimenticare la sua abile versatilità nel parlarci di «Scipione l’Africano, del feroce saladino, degli impiegatucci, dei travet, degli accordatori, degli antichi romani, dello Sceicco Bianco, dei Vitelloni, dei mariti, dei seduttori, dell’Americano a Roma, degli scapoli, dei pappagalli, di guardie e marescialli, di generi, padri e figli, di maestri e di studenti, di soldati e vigili urbani, di mafiosi e commissari, di ricchi industriali, di piccoli borghesi e fruttivendoli, di piloti di aereo, preti e complessati, di attori di avanspettacolo, giocatori e marchesi, di tassisti e malati immaginari, di avari, ladri e anziani».

Corredato delle immagini che ritraggono sorridente il più completo artista italiano degli ultimi decenni durante la cerimonia di conferimento della laurea honoris causa presso l’Università degli studi di Salerno (risalente all’aprile del 2002), il volume non dimentica di farci presente (tramite le parole di Annibale Elia, professore di Linguistica computazionale presso lo stesso ateneo di Salerno) che già lo Iulm di Milano aveva conferito una laurea honoris causa ad Alberto Sordi. Tutto ciò risalta ulteriormente quando si leggono le parole dell’attore nell’autodescriversi di fronte al professore universitario Pasquale Iaccio. Infatti «Sordi disse: “Io sono solo un artigiano che fa le scarpe a mano, l’Università non si è mai occupata di me”». Un’umiltà, la sua, riscontrabile solo nei geni: in fondo, come diceva William Hazlitt, «nessun grande uomo ha mai pensato a se stesso in questi termini»!

 

Giorgia Martino

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno I, n. 4, dicembre 2007)

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