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Anno V, n. 44, aprile 2011
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Biografie (a cura di Fulvia Scopelliti) . Anno V, n. 44, aprile 2011

Zoom immagine Una chiesa popolare
dalla parte dei poveri
per ridare speranza
a una terra dilaniata

di Guglielmo Colombero
Da Sankara edizioni la rievocazione
della lunga guerra civile in Salvador
dal punto di vista del clero cattolico


Era il 23 marzo 1980 quando l’arcivescovo di San Salvador, monsignor Óscar Arnulfo Romero, pronunciò la sua ultima omelia, rivolgendosi direttamente alle forze armate della repubblica di El Salvador: «Mi appello agli uomini dell’esercito, della guardia nazionale, della polizia. Fratelli, voi appartenete al nostro stesso popolo, come potete uccidere i vostri stessi fratelli contadini? Di fronte all’ordine di ammazzare impartito dagli uomini deve prevalere la legge di Dio che dice: Non uccidere! Nessun soldato ha l’obbligo di obbedire a un ordine contrario alla legge di Dio. Se una legge è immorale, nessuno è tenuto a rispettarla. Dovete obbedire alla vostra coscienza piuttosto che a un ordine iniquo. La chiesa, custode della legge divina, difende la dignità umana delle persone, non può restare in silenzio di fronte a un simile abominio. Il governo deve rendersi conto che a niente servono le riforme se sono sporche di tanto sangue. In nome di Dio, dunque, e in nome di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più forti, io vi supplico, vi prego, vi scongiuro, vi ordino, in nome di Dio: cessate la repressione!». Il giorno successivo, 24 marzo 1980, alle ore 18:16, mentre monsignor Romero elevava l’ostia durante la Messa, un colpo di fucile gli recise la vena giugulare. Il sicario non fu mai individuato con certezza, ma nessuno ebbe il benché minimo dubbio sull’identità del mandante di quell’atroce delitto che sconvolse l’opinione pubblica mondiale: il maggiore Roberto D’Aubuisson, ex direttore dei servizi di sicurezza governativi e futuro leader della destra salvadoregna. Óscar Arnulfo Romero era nato a Ciudad Barrios il giorno di Ferragosto del 1917, da una famiglia di umile condizione sociale, ed era stato ordinato sacerdote all’età di 25 anni. Il processo di beatificazione da parte della Chiesa cattolica ha preso il via il 24 marzo 1994.

 

Una cronologia costellata di massacri

La storia del popolo salvadoregno «nasce sotto il segno della violenza»: è quanto si legge nell’incipit del saggio di Claudia Fanti El Salvador. Il Vangelo secondo gli insorti. Mons. Romero e i movimenti popolari rivoluzionari (Sankara edizioni, pp. 144, € 9,00). L’autrice, studiosa dei movimenti ecclesiali e sociali dell’America Latina, collabora da anni con l’agenzia d’informazione Adista e fa parte del comitato direttivo dell’associazione Amig@s Movimento senza terra-Italia. Ha inoltre contribuito al volume collettivo Brasile al bivio. La scommessa di Lula, presidente operaio (Paoline editoriale libri) e a Guerra e Mondo. Annuario geopolitico della pace 2004 (Altreconomia edizioni - I libri di Terre di mezzo), e curato, insieme a Marinella Correggia, il saggio L’alba dell’avvenire: socialismo del XXI secolo e modelli di civiltà dal Venezuela e dall’America Latina (Edizioni punto rosso). La casa editrice Sankara, fondata sul volontariato, non ha scopo di lucro, e pubblica volumi sui Paesi in via di sviluppo. Prende nome da Thomas Sankara, il leader africano che fu presidente del Burkina Faso fra il 1983 e il 1987, morto assassinato per aver tentato di attuare radicali riforme economiche e sociali in quella povera e tormentata nazione.

Indipendente dal 15 settembre 1821, la repubblica di El Salvador è lo stato meno esteso e più densamente popolato dell’America centrale: grande poco meno della Toscana, ospita sei milioni e mezzo di abitanti (dei quali trecentomila ammassati nella capitale San Salvador). Due salvadoregni su dieci sono analfabeti, la mortalità infantile è ancora spaventosamente alta (nelle campagne 20 bambini su mille non arrivano all’età adulta). Il salario medio di un bracciante agricolo non arriva a cento dollari mensili; quello di un operaio dell’industria è inferiore ai duecento; un terzo della popolazione si accontenta di un solo pasto quotidiano. Qualche mese fa si leggeva su un blog dedicato alla situazione sociale del paese (consultabile su http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/vociglobali): «Ormai da anni, molte famiglie si sono abituate a vivere grazie alle rimesse inviate dai parenti negli Stati Uniti; e consumano pagando con carte di credito, accumulando debiti che pagheranno come potranno in futuro. La verità è che viviamo di apparenze. E che la crisi, nelle sue forme accettabili di inflazione e rialzo dei prezzi, esiste eccome. Solo che è sopportabile e non pregiudica il potere d’acquisto dei ceti medio-alti della popolazione, per i quali i soldi non mancano anche se le cose costano un po’ di più. È sempre stato così. Una piccola minoranza della popolazione salvadoregna alimenta il mercato degli articoli di lusso e dei servizi accessori investendo grosse cifre in beni superflui, che non sono parte della realtà ma essenza di una fatua condizione che porta alla schiavitù». Dopo un secolo di dominio incontrastato da parte dell’oligarchia feudale dei cafeteleros – le 14 grandi famiglie di coltivatori del caffè (il 2% della popolazione che possedeva metà delle terre fertili) – le elezioni presidenziali del 16 marzo 2009 hanno segnato una svolta epocale: ha vinto il candidato delle sinistre, il cinquantenne giornalista Carlos Mauricio Funes, regolarmente insediato il 1 giugno. Vent’anni prima gli avrebbero sparato in fronte durante il primo comizio; da allora la situazione è indubbiamente cambiata, se uno dei reporter in prima linea nel denunciare i massacri della trascorsa dittatura ora indossa la fascia presidenziale.

 

Il feroce caudillo che temeva il malocchio

La matrice storica della violenza politica in El Salvador deriva dal golpe militare del 4 dicembre 1931, che stronca brutalmente il primo tentativo di riforma agraria nel paese costringendo all’esilio il presidente liberale Arturo Araujo. L’oligarchia dei cafeteleros designa come mastino dei propri interessi il colonnello Maximiliano Hernández Martínez, dittatore assoluto del paese per 13 anni. Paranoico e superstizioso (credeva nell’occultismo e nella reincarnazione), implacabile contro gli indios ribelli pur ostentando i tipici tratti somatici della loro stirpe, Hernández rappresenta l’incarnazione più sanguinaria e grottesca del fascismo tropicale sudamericano. Nella notte fra il 22 e il 23 gennaio 1932, i contadini indios, guidati dal sindacalista comunista Farabundo Martí, insorgono contro il tiranno, armati di vecchi fucili e di machete; la repressione degenera in un bagno di sangue che costa la vita ad almeno diecimila insorti o presunti tali. Martí finisce davanti al plotone d’esecuzione (e il partito della guerriglia, il Fmln – Farabundo Martì par la liberación nacional, prende il nome da lui, combattendo i militari per mezzo secolo prima di vincere pacificamente le elezioni del 2009). In quelle settimane di orrore intere comunità indigene, appartenenti all’etnia nahuatl, vengono spazzate via dalla selvaggia reazione dell’esercito al soldo dei latifondisti. Sconfessato dagli Stati Uniti a causa delle sue conclamate simpatie per l’Asse, Hernández è costretto a dimettersi dai suoi stessi ufficiali nella primavera del 1944. Esule in Honduras, ha la malaugurata idea di assumere come autista il figlio di una delle sue vittime, un certo Cipriano Morales, che il 15 maggio 1966 lo massacra con 17 pugnalate, a pochi mesi dal compimento dei suoi 84 anni.

 

La miseria endemica di una terra in trance

Alla luce di questi truci antefatti, la storia del paese si snoda attraverso un sentiero di sangue e di terrore. Fanti ci descrive una società rurale e arcaica, dominata da un cupo e raggelato fatalismo: «È un mondo in cui manca tutto: un’abitazione decente, un’alimentazione adeguata, l’educazione, la salute, il lavoro, la sicurezza. Ne deriva una rassegnata impotenza, l’assenza assoluta di aspettative. Il mondo contadino è un mondo chiuso e fatalista, in cui non resta che accettare passivamente un presente e un futuro già predeterminati, in cui tutto è statico, tutto è così perché così è sempre stato». Ripristinata formalmente la democrazia dopo la caduta di Hernández, le forze conservatrici riescono sempre a impedire qualsiasi riforma economica e sociale. Una concatenazione di golpe militari fra il 1948 e il 1977 non fa altro che suonare sempre la stessa musica cambiando soltanto i suonatori. Ad un maggiore cautamente riformista, Óscar Osorio, subentra nel 1956 il colonnello José María Lemus, rigidamente conservatore, a sua volta spodestato nel 1961 dal collega Julio Adalberto Rivera, il quale, ostentando un atteggiamento populista, aderisce sia pure con riserva all’Alleanza per il progresso propugnata dall’amministrazione Kennedy in America Latina. Secondo l’autorevole storico statunitense Hubert Herring si tratta di un atteggiamento «suggerito dalla prudenza: i più intelligenti fra i militari hanno compreso che lo spirito della rivolta è nell’aria, e piuttosto che perdere il controllo del paese preferiscono affrontare la minaccia del comunismo e delle agitazioni di sinistra non con un rincrudimento della repressione, ma con un programma di riforme». L’unico partito che conta realmente nel paese, quindi, è l’esercito, spesso diviso in fazioni contrapposte, e Rivera decide di istituzionalizzare l’ingerenza delle forze armate fondando un movimento politico – il Partito di conciliazione nazionale – destinato a governare il Salvador ininterrottamente dal 1962 al 1979. Nel 1969 la tragedia si mescola alla farsa: scoppia una breve guerra di confine con l’Honduras a causa di una contestata partita di calcio fra le rispettive nazionali, degenerata in sanguinosi disordini (alla fine la spunta la formazione di El Salvador, che partecipa al girone finale dei mondiali di calcio in Messico. Il successore di Rivera, il colonnello Fidel Sánchez, si pavoneggia come un eroe nazionale). La svolta rivoluzionaria dell’autunno 1979, favorita dall’amministrazione Carter, degenera ben presto nella guerra civile fra esercito e guerriglia: lo spartiacque è l’assassinio di monsignor Romero. Il suo carnefice, Roberto D’Aubuisson, viene nominato nel 1982 speaker del parlamento e riceve personalmente un imbarazzato pontefice Giovanni Paolo II in visita pastorale nel paese. Definito dal diplomatico statunitense Robert White «uno psicopatico omicida», D’Aubuisson concorre alle elezioni presidenziali del 1984, ma soccombe di fronte al candidato cristiano-democratico Napoleon Duarte: un tumore maligno lo uccide a soli 47 anni, ma il partito da lui fondato, l’A.re.na, governa il paese per un ventennio, dal 1989 al 2009. Va riconosciuto all’erede politico di D’Aubuisson, il presidente Alfredo Cristiani, il merito di aver sottoscritto nel 1992 l’accordo di pacificazione nazionale che mette fine a una guerra civile costata almeno centomila vittime fra il 1979 e il 1990. Rapportando le dimensioni della minuscola repubblica centroamericana a quelle del nostro paese, è come se in Italia fossero perite di morte violenta mezzo milione di persone.

 

La lotta solitaria di un sindacalista legato alla terra

Lo chiamavano Polín, ma il suo vero nome era Apolinario Serrano. Nato nel 1943 a Suchitoto, era analfabeta ma nonostante ciò dotato di un carisma straordinario, di una grande capacità di comunicare. Si lega a monsignor Romero, i due diventano amici fraterni: «Monsignore, io credo nelle stesse cose in cui crede lei. Con la differenza che lei come arcivescovo gode di potere e prestigio, mentre io rappresento dei contadini che sono considerati meno di niente». Nell’estate del 1975, mentre la repressione infuria per ordine dell’ennesimo presidente in divisa, il colonnello Arturo Molina, Polín fonda la Ftc - Federación de trabajadores del campo, il sindacato dei campesinos, e il suo nome finisce al primo posto nella lista dei “sovversivi” da eliminare. Il 29 settembre 1979, a due settimane dal golpe dell’ala riformista dell’esercito guidata dal colonnello Adolfo Majano, Polín cade sotto il piombo dei militari al chilometro 27 della Panamericana, insieme ad altri tre dirigenti della Ftc, José Apolinario Lopez, Patricia Puertas e Felix García. In un’omelia del 7 ottobre, monsignor Romero pronuncia queste parole: «Non vorrei pensare, di fronte alla realtà di un esercito che uccide quattro contadini, speranza del popolo, che tutto l’esercito sia tanto corrotto. Voglio sperare che ci sia speranza anche lì».

 

Un paese martirizzato che continua a sperare

È su questo sfondo cruento che si consuma il dramma della Chiesa cattolica di El Salvador: «È pericoloso essere cristiani! È pericoloso essere autenticamente cattolici! È praticamente illegale essere cristiani veri nel nostro ambiente, nel nostro paese. Perché il mondo che ci circonda è fondato radicalmente su un disordine stabilito, e la semplice proclamazione del Vangelo è sovversiva». Sono le parole con cui padre Rutilio Grande sigla il proprio testamento spirituale. Pochi giorni dopo, il 12 marzo 1977, il prete che difendeva i campesinos dalle angherie dei latifondisti muore assassinato da sicari rimasti nell’ombra. Da quel momento monsignor Romero inizia ad opporsi al regime militare, che ha appena proclamato vincitore di elezioni fraudolente il generale Carlos Humberto Romero, per ironia della sorte omonimo dell’arcivescovo, il quale comunque diserta la cerimonia del suo insediamento. Scrive monsignor Romero in una lettera pastorale del gennaio 1979: «Radice fondamentale di ogni altra violenza è la violenza istituzionalizzata, quella di una struttura sociale che nega alla stragrande maggioranza della popolazione i diritti più elementari, a cominciare dal diritto alla vita, ma che è diventata talmente abituale da non essere più nemmeno avvertita come violenza». E ancora, il 19 marzo 1980, pochi giorni prima di morire, nel corso di un’intervista concessa a un giornale venezuelano, monsignor Romero si spinge ad affermazioni ancora più radicali, riallacciandosi alla teologia di Agostino da Ippona e di Tommaso d’Aquino: «Quando una dittatura attenta gravemente ai diritti umani e al bene comune della nazione, e si chiudono i canali di dialogo, di comprensione, di razionalità, quando questo avviene, allora la chiesa parla di legittimo diritto alla violenza insurrezionale».

 

Donne che si emancipano attraverso la lotta

In Salvador la condizione femminile nelle campagne si dibatte in un’aspra condizione di schiavitù dentro la schiavitù: il machismo impera anche nel mondo dei campesinos. L’uomo oppresso e sfruttato spesso proietta rancori e frustrazioni sulla propria compagna, segregandola fra le mura domestiche e mortificandone ogni autonoma iniziativa. Non sempre la presa di coscienza rivoluzionaria coincide con l’affermarsi della piena parità fra i sessi, anzi, talvolta ne reprime i fermenti.

Patricia Puertas, detta “Ticha”, trova il coraggio di infrangere questa consuetudine: all’età di 14 anni si sposa con Felix García, un giovane agricoltore che, per nulla rassegnato alla miseria, in pochi anni diventa uno dei dirigenti più in vista della Feccas, la federazione cristiana dei contadini salvadoregni. Il 30 luglio 1977 la sorella Filomena è rapita e assassinata dai terroristi prezzolati dal latifondo, ma Ticha non si arrende e, prima e unica donna nel paese, diventa dirigente nazionale della Ftc di Polín. Due anni dopo, l’agguato che costa la vita al fondatore del sindacato rurale spegne anche l’esistenza di Ticha e di suo marito.

Tragico e fortemente emblematico è anche il destino di Mélida Anaya Montes, meglio conosciuta con il nome di battaglia di Ana María, assassinata il 6 aprile 1983, ma non dagli squadroni della morte. Fanti dedica una particolare attenzione a questo inquietante episodio di intolleranza politica, maturato nelle viscere stesse del movimento di liberazione salvadoregno: «Ana María non cade in combattimento, non viene uccisa dal nemico. Viene assassinata dai suoi stessi compagni, addirittura dal responsabile dell’organizzazione a cui aveva dedicato la vita. È Salvador Cayetano Carpio, il fondatore delle Fpl, il mitico comandante Marcial, che pianifica l’omicidio. Non sopportando la caduta del suo prestigio e della sua autorità all’interno dell’organizzazione, aveva finito per identificare Ana María, più flessibile, più aperta alla comprensione dei nuovi fenomeni, più avanzata, come responsabile di quelle che lui considerava pericolose deviazioni piccolo-borghesi». Smascherato come mandante del delitto dalla stampa internazionale, il comandante Marcial, esule a Managua, si spara alla testa sei giorni più tardi: aveva 64 anni. Nel 1932, ancora adolescente, aveva assistito alla fucilazione di Farabundo Martí, diventandone da allora il più convinto dei seguaci. Cayetano personifica fino in fondo il lato oscuro della guerriglia rivoluzionaria, quello dalle radici avvelenate che affondano nel totalitarismo marxista d’impronta sovietica e cubana, ostile al libero confronto di idee all’interno di un movimento politico che vorrebbe eliminare le ingiustizie sociali e finisce invece per sopprimere fisicamente il dissenso. Una cancrena ideologica che sprigiona tendenze autodistruttive, e di cui era già stato vittima in passato il poeta della rivoluzione salvadoregna, Roque Dalton, assassinato dai suoi stessi compagni di lotta a Quezaltepeque il 10 maggio 1975, con la falsa accusa di essere un traditore e una spia.

 

Non basta più pregare

Il tributo di sangue pagato dal clero cattolico nel Salvador dopo l’assassinio di monsignor Romero è stato altissimo, conseguenza di una vera e propria persecuzione anticristiana: il 14 giugno 1980 perde la vita il francescano italiano padre Cosma Spezzotto, di Treviso; il 6 ottobre tocca a padre Manuel Reyes Mónico; il 2 dicembre quattro religiose americane (Dorothy Hazel, Ita Ford e Maura Clarke dell’ordine Mariknoll e la missionaria laica Jean Donovan) vengono rapite e assassinate dagli squadroni della morte di D’Aubuisson. L’orribile episodio è narrato con toccante intensità emotiva dal regista Oliver Stone nel film Salvador, interpretato nel 1986 da James Woods e da John Savage. Dopo il massacro di El Mozote, nel dicembre 1981, in cui l’esercito ammazza più di mille contadini inermi, il sacerdote belga Rogelio Ponseele sceglie di unirsi ai guerriglieri: «Di fronte a tutti quei morti, a tutta quella distruzione, non riuscii a resistere. Com’è possibile che proprio qui, dove tante volte sono venuto a dire che Dio è un Dio vicino e che ci ama, che non resta indifferente al dolore, proprio qui succeda un massacro così spaventoso?»

Conclude Fanti, quasi a profetizzare la svolta politica che pochi anni dopo porterà finalmente al governo i partiti di sinistra un tempo legati alla guerriglia, riferendosi all’incessante opera umanitaria di padre Rutilio Sánchez, già responsabile della Caritas salvadoregna e assiduo collaboratore di monsignor Romero, scampato più volte miracolosamente alle rappresaglie degli squadroni della morte: «El Salvador continua, tuttavia, ad essere una terra di speranza. La speranza che alimenta le lotte per la sopravvivenza condotte dalle comunità rurali, i sogni dei contadini poveri del Paese. […] La speranza di chi crede nelle capacità di queste comunità di resistere, di lottare, di sognare e ha deciso perciò di scommettere sulla loro crescita e sul loro sviluppo. È il lavoro che svolge il Sercoba, Equipo de servicio para comunidades de base, fondato nel 1992 da Rutilio Sánchez, con l’appoggio di una missionaria laica italiana, Mariella Tapella di Pax christi, per ricostruire un punto di riferimento in ambito cristiano e contadino, rispondendo alle necessità più urgenti della comunità in varie zone del Paese e sostenendone lo sviluppo integrale attraverso diversi progetti di autogestione: dai centri per il recupero dell’arte e della cultura e per la formazione e la creazione artigianale alle biblioteche comunitarie di base come momenti di incontro e di crescita culturale, alle adozioni a distanza, ai programmi di agricoltura biologica e di produzione del miele, ai forni solari e agli orti familiari, fino alla creazione di una Casa della pace come centro di accoglienza, alfabetizzazione e formazione biblica, associate ad un programma di promozione e difesa dei diritti umani. La scommessa dei poveri continua».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 44, aprile 2011)

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