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Anno V, n. 44, aprile 2011
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Letteratura contemporanea (a cura di Francesco Mattia Arcuri) . Anno V, n. 44, aprile 2011

Zoom immagine L’alterità fatale
e il “fascino”
della devianza

di Guglielmo Colombero
Da Wlm edizioni un’analisi
dell’emarginazione urbana
e dell’inquietudine giovanile


Francesca Melloni, milanese, vive in un piccolo paese in provincia di Bergamo con la figlia Morgana (che ha disegnato la copertina con l’angelo e il demone). Lavora come operatrice turistica, ma le sue vere passioni sono il cinema d’autore (Kubrick e Tim Burton su tutti), la letteratura Fantasy (Tolkien e Bradley), la musica e i manga di genere yaoi come Kizuna e Love Mode. Adora tutti gli animali (i cani in particolare) e ha sempre nutrito interesse per le tematiche a sfondo omosessuale nella letteratura, sullo schermo e nel fumetto. Il respiro della notte (Wlm, pp. 174, € 14,00), disponibile anche in formato e-book, segna il suo debutto nella narrativa, all’interno di un substrato culturale su cui si riverberano forti suggestioni espressioniste (la nostra impressione è che l’autrice abbia letto molti classici del Novecento, assimilandone parecchia linfa preziosa).

 

Matteo, in compagnia di due angeli all’Inferno

Il respiro della notte è una storia a tratti minimalista, ma con squarci di vibrante intensità emozionale. Il protagonista, Matteo, entra in scena con una specie di invettiva interiore che gli rimbalza nella mente: tutta colpa di quello stronzo di Michele… Michele è il suo angelo nero, l’oscuro oggetto di un desiderio inappagato (la sua vorace e quasi proterva eterosessualità rappresenta una barriera in apparenza insormontabile per Matteo, attratto da quella sua «voce bassa e calda, sensuale, che diventava come carta vetrata quando si alzava di tono. Era una voce capace di graffiare la pelle e l’anima. Il microfono amplificava i suoi respiri nel silenzio insolito del locale, rendendoli simili a gemiti di piacere. I capelli biondi, quasi bianchi, si appiccicavano alla pelle sudata del viso, alle guance, alla bocca, e poi scendevano a sfiorare il collo, per perdersi dietro la schiena»), e gli fa da contrappeso Lorenzo, l’angelo bianco, quasi efebico nella sua esile fragilità, nel suo mostrarsi vulnerabile nel fisico come nella mente: «La prima volta che lo aveva visto pioveva e Lorenzo aveva i capelli appiccicati al viso e il trucco che gli colava sulle guance pallide. I suoi vestiti erano fradici, e lui si stringeva nelle braccia tremando dal freddo. Sembrava un gattino appena buttato in un sacco della spazzatura».

Il trio frequenta un locale percepito come oasi urbana, come utero artificiale in cui rannicchiarsi per sfuggire a una realtà tetra e opprimente, ai fantasmi cianotici di notti che si trascinano stancamente fino alla livida malinconia dell’alba negli slums urbani. «L’Inferno era un pub per disperati, un luogo dove passare la notte se non sapevi dove andare, dove stordirti di alcool e musica a tutto volume. Ma era anche un locale dove potevano suonare gruppi che da altre parti non facevano nemmeno entrare. Un posto per balordi. Per Matteo, un posto dove sentirsi a casa».

 

Rabbia e torpore, tenerezza e ferocia

L’autrice sfoggia un impeto quasi rabbioso nel tratteggiare le pulsioni dei suoi personaggi: una prosa asciutta, ma a sprazzi irrigata dal fiume carsico di improvvise vampate quasi barocche, come nel brano della rissa notturna con una banda di teppisti, che vede Matteo combattere danzando come un eroe omerico catapultato in un vicolo deserto («Matteo li fissò uno alla volta, leccandosi le labbra, come un leone affamato davanti alla gazzella appena sgozzata. Dai suoi occhi, dal suo viso, dalla postura che aveva inconsciamente assunto il suo corpo, emanava una violenza tale da essere quasi visibile, come rosse onde di calore che si diramavano da lui e si disperdevano nel buio»). Affiora anche un gusto quasi postmoderno in certi ritratti femminili, come in un quadro di Caravaggio in cui, colpite da una scia di luce opaca che cade dall’alto, le vesti delle popolane rinascimentali (il pittore prediligeva lavandaie e prostitute) si mutano per magia in abbigliamento punk o metal («Sarita, Na-chan e Stefania, armate di zaini e trousse, andarono a trincerarsi in bagno da dove uscirono qualche tempo dopo trasformate in perfette ragazze metal, corsetti di pelle, minigonne, stivali sadomaso e trucco pesante. Sarita, una bellissima Morticia, alta e con i capelli lisci, lunghi e neri, e Na-chan, piccola e minuta come una bambina e con i capelli scuri tagliati a caschetto, raggiunsero Choppy in cucina. Stefania, bionda e con un fisico da modella, andò dietro il bancone con Giacomo»).

Il respiro della notte, gelido o rovente a seconda della percezione sensitiva, racchiude un microcosmo variegato e ribollente, che l’autrice compone come un mosaico denso di colori a volte brillanti e a volte fangosi: i germi dell’autodistruzione proliferano assieme a slanci di selvaggia vitalità, sensazioni e desideri sfumano in contorni ambigui e indefiniti, ma la maschera portata dai personaggi talvolta si decompone e si frantuma, per rivelare un volto che, orrido o angelico che appaia, altro non è che l’emersione tellurica della propria vera identità. Le dissonanze cupe e compulsive della musica alternativa, che accompagnano gli aneliti spesso disperati di questo mondo profondamente altro rispetto a una massa intontita dalla banalità televisiva, confluiscono in una sinfonia trasgressiva e blasfema nel sistematico deragliamento dai canoni imposti dalla società dei «regolari», degli integrati che, ipocritamente, ogni tanto si immergono in quella specie di suburra infetta per soddisfare i loro vizi inconfessabili.

Francesca Melloni affonda il suo bisturi impietoso in carni e viscere innocenti quanto contaminate, mescolando il luccichio puro e scintillante delle lacrime con il riflesso torbido della pioggia ristagnante nelle pozzanghere di una strada di periferia.

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 44, aprile 2011)

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