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Comunicazione e Sociologia (a cura di Marilena Rodi) . Anno V, n. 41, gennaio 2011

Zoom immagine La controversa
ricostruzione
dell’Abruzzo

di Rosina Madotta
La Protezione civile e il sisma
nell’aquilano: fatti e misfatti
della vicenda. Aliberti editore


Abruzzo. 6 aprile 2009. Ore 3 e 32 minuti. Una scossa di terremoto distrugge L’Aquila e altri 50 comuni abruzzesi. Ciò che accade nel corso dei mesi successivi nella fase critica e d’emergenza è sotto gli occhi di tutti: 308 morti, 1.600 feriti, 70mila sfollati è il bilancio di una tragedia prevedibile – secondo l’opinione di alcuni geologi che avevano dato  l’allarme già mesi prima che l’evento sismico si verificasse – ed evitabile – perché ad uccidere non sono i terremoti, ma la mancanza di prevenzione e la costruzione degli edifici in deroga alle normative vigenti in materia antisismica. La gestione dello stato d’estrema urgenza dei primi giorni, la sistemazione dei cittadini la cui casa è stata dichiarata inagibile e l’inizio della ricostruzione nei mesi seguenti sono, ormai, per l’opinione pubblica italiana ed estera, il “miracolo aquilano”, un successo di Silvio Berlusconi e del suo governo, di Guido Bertolaso e della Protezione civile. Un risultato politico che rappresenta – insieme alla fantomatica risoluzione a Napoli dell’allarme igienico-sanitario dovuto ai rifiuti – un esempio della “politica del fare” che non ammette critiche e adombra chi muove opinioni discordanti.

Chi a L’Aquila c’è stato e ha visto con i propri occhi, ha espresso diverse perplessità sull’operato della Protezione civile e sulla maniera d’affrontare e gestire l’emergenza. Un attento e argomentato saggio del giornalista e regista Alberto Puliafito, intitolato Protezione civile Spa. Quando la gestione dell’emergenza si fa business (Aliberti editore, pp. 368, € 17,00) racconta la storia aquilana sotto una diversa prospettiva, per cercare di capire se ciò che è stato fatto in Abruzzo poteva essere fatto in modo diverso e, forse, in modo migliore. L’autore, che è tra l’altro regista di due documentari sullo stesso argomento – Yes we camp e Comando e controllo – specifica subito nell’Introduzione che le critiche sollevate non sono rivolte verso coloro che incondizionatamente hanno aiutato le zone investite dal terremoto e continuano a farlo, ma piuttosto colpiscono un uso strumentale del Dipartimento nazionale di protezione civile per fini che non sono strettamente collegati a tale istituzione, e soprattutto la logica dell’assistenza prolungata che a molti mesi dal sisma accompagna ancora la popolazione.

 

Il comando, il controllo e l’informazione distorta

Alberto Puliafito inizia la sua ricostruzione tramite la testimonianza diretta di un cittadino aquilano: «all’Aquila non c’è una democrazia della comunicazione: il dottor Guido Bertolaso alza il telefono e voi, pur di fargli un’intervista, scrivete tutto quello che vi dice», dove con il pronome “voi” s’intendono tutti i giornalisti che si sono recati sul posto, e sono diventati portavoce delle autorità anziché della popolazione. È ovvio che i terremotati sentano la necessità di raccontare direttamente le loro verità, i drammi e le difficoltà vissuti sulla loro pelle e non tramite la vetrina mediatica che li ha visti inconsapevoli testimonial degli ascolti Auditel dei telegiornali e del successo di un governo. Basta citare semplicemente un episodio: il Tg1, il 7 aprile, ha ostentato i dati altissimi riferiti agli ascolti nelle edizioni del giorno precedente.

L’autore da giugno 2009 in poi, si accampa a L’Aquila per registrare e comprendere dall’interno la situazione. Una delle prime cose che tenta di attuare è parlare con la popolazione interessata dal sisma. Per fare ciò deve necessariamente entrare nei diversi campi allestiti: operazione difficoltosa se non impossibile. Puliafito paragona i tentativi d’esercitare un assoluto controllo dell’informazione all’Aquila, all’esperienza sperimentata nella striscia di Gaza, in Palestina, dove ha girato un documentario. Si cominciano in questo modo a capire i meccanismi messi in atto dalla Protezione civile e dalle istituzioni locali nella gestione del sisma. Nelle fasi dell’emergenza vengono istituiti un organismo centrale, Dicomac (un acronimo che significa Dipartimento di comando e controllo) – una sorta di quartier generale la cui funzione principale è coordinare tutte le attività all’interno dei campi allestiti a tendopoli e all’interno della cosiddetta zona rossa – e delle strutture intermedie dislocate sul territorio in ogni campo, Com (Centri operativi misti). Il significato pratico dei termini “comando” e “controllo” è esplicato meglio in alcuni divieti perentori e doveri esposti nei regolamenti delle tendopoli, addirittura recintate con filo spinato. «Nei campi di accoglienza – scrive il giornalista – è vietato volantinare. È vietato fare assemblee. Hanno vietato persino il caffè. Negli alberghi devi indossare il braccialetto di riconoscimento: ti trattano come un ospite»; agli sfollati è persino suggerita una dieta alimentare da seguire nei mesi estivi. In un altro passaggio si comprende meglio come il controllo, addirittura militare, sia applicato non solo alla vita nei campi ma, anche e soprattutto, alla possibilità di comunicare con il resto d’Italia e del mondo in modo chiaro e senza distorsioni: «“Comando e controllo” si esplicano anche nel controllo dell’informazione, nell’impedire gli accessi ai campi, nel manipolare ogni critica per renderla inutile, ridicola, mal informata, per sbugiardarla».

Berlusconi aveva annunciato che tutti gli sfollati sarebbero stati fuori dalle tende entro fine 2009. E così il 4 settembre i mezzi d’informazione raccontano dello smantellamento del primo campo d’accoglienza, quello di piazza d’Armi e i tg trasmettono le immagini di alcuni militari che smontano una tenda. Peccato che fosse già vuota da giorni! Nel corso di due settimane le persone sono allontanate coattivamente, trasferite nelle caserme della guardia di finanza o negli alberghi sulla costa, senza tenere conto delle singole esigenze e dello smembramento dei nuclei familiari. Coloro che si oppongono e rifiutano lo spostamento altrove sono additati come una minaccia, privati da un giorno all’altro dei servizi igienici, della mensa e dell’assistenza necessaria. Eppure, in televisione, nessun telegiornale accenna alle persone “deportate” con la forza, ma si vedono soltanto volti sorridenti e persone grate per l’operato del governo.

 

Il progetto Case

Il 28 aprile 2009, durante un Consiglio dei ministri tenuto dopo una massiccia divulgazione sui mass media a L’Aquila, viene varato il “decreto Abruzzo” che prevede la progettazione e realizzazione, nei comuni ricadenti nel cratere sismico, di «moduli abitativi destinati ad una durevole utilizzazione, nonché delle connesse opere di urbanizzazione e servizi, per consentire la più sollecita sistemazione delle persone le cui abitazioni sono state distrutte o dichiarate non agibili dai competenti organi tecnici pubblici in attesa della ricostruzione o riparazione degli stessi». È il cosiddetto piano Case (l’acronimo significa Complessi antisismici sostenibili ecocompatibili). È una cosa condivisibile la realizzazione di fabbricati d’emergenza dove ospitare gli sfollati, ma il testo parla chiaro: le case non saranno provvisorie ma durevoli, temporanee solo nell’assegnazione ai nuclei familiari. Nonostante la popolazione aquilana abbia più volte espresso fermamente l’intenzione e il desiderio di ritornare a vivere nelle proprie case, l’idea del premier di costruire delle new town, delle città ex novo in tempi brevissimi è evidente. «All’Aquila – sottolinea l’autore – si costruirà, dunque. E in fretta. Prima di rimuovere le macerie. Prima di ricostruire. Prima di provvedere a sistemazioni per chi ha prospettive di rientro a medio termine e di iniziare con la ristrutturazione delle abitazioni lievemente danneggiate. Si costruirà». La soluzione, realmente provvisoria, dei container viene rifiutata categoricamente dalle istituzioni locali e dal governo. E intanto c’è chi rimane per mesi in attesa dell’assegnazione di una casa, nelle tende o negli alberghi, per una precisa scelta del Dipartimento di protezione civile e ciò provoca notevoli conseguenze negative in senso psicologico. I lavori cominciano – finanziati in parte anche con fondi europei – in deroga alle più elementari leggi vigenti su temi come espropri, appalti e subappalti, e una volta ultimati ci si rende conto che i nuovi alloggi non sono sufficienti a ospitare tutti gli sfollati. Ciò emerge da un censimento nel quale ogni nucleo familiare esprime preferenza per un alloggio del piano Case, per l’affitto rimborsato in parte da un contributo, o per la sistemazione autonoma. Più di 22mila persone scelgono la prima sistemazione, ma solo per 17mila di queste ci sarà l’assegnazione di un alloggio, secondo alcuni criteri resi noti, sebbene discutibili, e una successiva graduatoria. A distanza di qualche mese gli alloggi del piano Case rappresentano un falso motivo d’orgoglio e successo poiché governo e Protezione civile hanno investito forze umane e risorse finanziarie nel progetto a discapito della ricostruzione vera e propria – le macerie degli edifici crollati non sono state ancora rimosse! – dell’impatto paesaggistico e ambientale che i complessi avrebbero avuto sui luoghi espropriati, della rinascita economica e sociale del territorio.

 

Protezione civile spa

Infine Puliafito analizza il ruolo, le funzioni, i poteri che il Dipartimento di protezione civile ha in Italia e l’iter del decreto legge numero 195 del 30 dicembre 2009 che prevede la costituzione di una società per azioni, Protezione civile servizi spa, società a capitale pubblico che, di fatto, può agire da general contractor: l’obiettivo è quello di privatizzare la gestione delle emergenze e, contestualmente, quella dei grandi eventi. Una società per azioni con capitale sociale d’un milione d’euro, unico azionista e gestore delle strategie rappresentato dalla presidenza del Consiglio dei ministri.

Ma il disegno di legge si blocca quando uno scandalo scoppiato il 10 gennaio 2010, travolge Guido Bertolaso e il dipartimento: un’inchiesta della Procura della Repubblica di Firenze indaga su Bertolaso con l’accusa di corruzione nell’inchiesta sui lavori a La Maddalena, la sede del G8 che fu spostato a L’Aquila in seguito al terremoto. Finiscono in manette quattro persone, tra le quali Angelo Balducci, presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, incaricato per l’esecuzione dei lavori sull’isola sarda in vista del G8. «Il gip fiorentino – riferisce l’autore – parla di “corruzione gelatinosa”: soldi, ville, favori sessuali ed escort, automobili di lusso in cambio degli appalti che andavano agli imprenditori amici e disponibili». Nell’inchiesta sono coinvolti anche due imprenditori intercettati telefonicamente mentre discutono, con ironia macabra, del terremoto aquilano come occasione di profitto economico.

Alberto Puliafito, in definitiva, muove la sua pungente critica verso il modello proposto dalla protezione civile, un modello che marginalizza ed esclude i cittadini protagonisti, che ostacola la partecipazione democratica alle decisioni, che mette le ragioni del profitto al centro dell’opera d’emergenza.

A L’Aquila i finanziamenti previsti dal decreto Abruzzo arriveranno fino al 2032 e si prevede che la ricostruzione durerà anni (per i più ottimisti), se non decenni. Il quadro della situazione, a un anno e mezzo dal sisma, è allarmante: non esiste più un tessuto sociale ed economico, non esiste più il patrimonio artistico e culturale; i cittadini sono ritornati a pagare le tasse e i mutui, pur non avendo più né le case né le attività commerciali; le strade e le piazze sono ancora occupate dalle macerie; i contributi per le sistemazioni autonome (200 euro mensili destinati a chi paga, per l’affitto, cifre spropositate) fermi.

 

Rosina Madotta

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 41, gennaio 2011)
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