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Letteratura contemporanea (a cura di Maria Franzè) . Anno V, n. 41, gennaio 2011

Zoom immagine Un racconto di ferite mai guarite
tra la solitudine e il dolore
per indagare a fondo nell’anima

di Guglielmo Colombero
Da Wlm un intenso racconto di vita
tra conflitti e inaspettate possibilità


«Attimi che scivolano via. Attimi della mia vita che sono un fuoco che consuma i respiri e i sogni, che brucia lacrime asciugate agli occhi insonni. La sua pelle vibra nelle mie vene disseccate come uno schiocco di vento arido che scandisce un tempo allungato di agonie. Vivo di grida acute e silenziose che graffiano l’oceano fino alle fosse». Debuttando nella narrativa con Io non sono di qui (Wlm, pp. 266, € 15,00), romanzo autobiografico pubblicato dall’editore Walter Manzoni, da sempre impegnato nella scoperta di nuovi talenti, l’artista polivalente Arianna Amaducci (dipinge quadri e scrive poesie, racconti e romanzi) affronta i percorsi aspri della solitudine e del dolore, e sa cristallizzare dentro le gocce d’ambra dei ricordi sentimenti ed emozioni distillate da una sapiente alchimia di parole. Il suo è un incessante nomadismo interiore: inseguire la felicità e sfiorarla senza mai raggiungerla, come una libellula impazzita che ti vola via dalle dita. Aggrapparsi alla vita con i denti, anche quando uno spaventoso vuoto mentale si riempie unicamente della voglia di farla finita, e domare la bestia invisibile che tenta di divorarti dall’interno.

 

Una sonda calata nelle pieghe oscure del disagio

Voler cercare le radici passate di un disagio profondo nella ferita mai rimarginata della morte prematura del padre: «Ora so che lui era il cuore della nostra casa e della mia infanzia. La nostra famiglia era finita. Sepolta con lui, al buio e con i ragni». Oppure nello stillicidio quotidiano di umiliazioni inflitte a una bambina ipersensibile da una madre oppressiva e da un fratello incarognito dalla gelosia: «Mio fratello mangiava come un cavallo, ma era magro, e stava crescendo. Quindi il suo piatto era sempre colmo. Io guardavo la mia piccola porzione e soppesavo tutto nel mio cuore. Meno cibo mi veniva concesso, meno amore ricevevo». Ma anche nell’innocenza profanata da carezze lascive scaturite dalla penombra satura d’incenso di un confessionale: «Sentivo il suo desiderio passare attraverso i buchi della grata. Sentivo i suoi occhi forare il buio. Sentivo una mano malvagia che si impossessava di me. Da allora, il piacere e il dolore si sono mescolati dentro di me. Per sempre». Sentire di non appartenere a un mondo arido e ostile contaminato dall'impossibilità di amare, e nonostante questo continuare a sognare di riprendere il volo, come una rondine ferita che dispiega nuovamente le ali.

 

Un racconto che lascia tracce profonde in chi legge

La prosa vivida e coinvolgente di Arianna Amaducci, autrice di raffinata sensibilità sia figurativa che letteraria (la copertina del libro riproduce un suo dipinto, Leggerezza), racchiude sprazzi di lirismo struggente che illuminano soprattutto la prima parte, che si addentra nella dolorosa rievocazione della sua infanzia tormentata tratteggiando il suo «gruppo di famiglia in un interno»: un sordido microcosmo piccolo borghese, in cui il perbenismo ipocrita è talmente radicato da stendere una cortina di omertà sulle molestie sessuali subite da Arianna in oratorio, colpevolizzando la vittima e non il carnefice.

«Oggi io sono l’amore che divora. La calura che toglie le forze. Il miasma asfissiante da cui corre lontano chi ho amato e chi amo»: è quasi una sentenza di condanna che Arianna pronuncia contro se stessa, contro la propria innocenza, dopo aver ripercorso con impietosa lucidità i sentieri del disagio mentale, sfociati in un paio di occasioni in agghiaccianti episodi di autolesionismo. Emarginata dalla famiglia, divisa fra due amori che incarnano per lei una lacerazione insanabile, capace di slanci passionali incandescenti seguiti da cadute verticali nella più cupa e devastante depressione, Arianna si interroga continuamente sulle radici del proprio malessere. Ma le risposte si contorcono in nuove domande, in altri angosciosi interrogativi irrisolti che continuano a riecheggiarle nella mente. Il senso di estraneità che pervade il titolo stesso del romanzo è frutto di un’afasia comunicativa, di un grido strozzato che nessuno raccoglie: Arianna non capisce il mondo in cui vive, come un’aliena precipitata sulla terra da un altro pianeta, e il mondo non capisce lei. «Oggi penso che mi manca qualcosa, una connessione, un meccanismo, un enzima, o non so che altro, e questo mi impedisce di capire la realtà, interpretarla e adattarmi a essa». Eppure la vitalità di Arianna è inesauribile, rigenera se stessa nella contemplazione della natura, si sublima in piccoli gesti d’amore verso le creature più fragili e indifese, apparentemente insignificanti, ma che invece racchiudono un inestimabile valore: il massaggio amorevole che ridona il respiro a un pesce agonizzante, una tenera carezza che infonde calore alla pelle di una bambina cerebrolesa… La rondine, anche se con un’ala spezzata, ama troppo la vita per lasciarsi morire, e una volta guarita torna a librarsi nell’aria. Io non sono di qui ha un pregio raro nel panorama letterario italiano: quello di arricchire interiormente chi lo legge. Anche attraverso quella catarsi lancinante che il grande Carlo Emilio Gadda definì «la cognizione del dolore».

 

Guglielmo Colombero

 

(www.bottegascriptamanent.it, anno V, n. 41, gennaio 2011)

Collaboratori di redazione:
Elisa Guglielmi, Ilenia Marrapodi
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